Il teatro comico di Girolamo Gigli (1959)

Il teatro comico di Girolamo Gigli, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 63°, serie VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1959, poi in W. Binni, L’Arcadia e il Metastasio cit.

IL TEATRO COMICO DI GIROLAMO GIGLI

I tentativi di costituzione di un teatro comico nell’epoca arcadico-razionalistica di primo Settecento si possono raccogliere in alcune linee abbastanza chiare, e coerenti a generali posizioni della poetica arcadica nel suo sforzo di regolarità e di vivacità, di ripresa della tradizione e di adesione alle esigenze della vita contemporanea, con varie soluzioni e tensioni di effettiva novità e di pedantesca imitazione e magari (come nel caso del Martello da me illustrato nel precedente capitolo) con singolari rifiuti di accettare l’impegno arduo di una riconquista del pubblico piú vasto e piú popolare nella consapevole impostazione di commedie «per letterati» piú da leggere che da rappresentare.

Sarebbe, cosí, facile individuare, accanto ad una posizione assolutamente sterile di commedia imitativa ferma agli esempi cinquecenteschi (il caso della Sanese del Lazzarini[1]), quella rappresentata dal Maffei che aveva ambizioni maggiori, ma le risolveva soprattutto in un recupero di elementi comico-satirici del costume contemporaneo in una prospettiva di comicità di un linguaggio artificioso di moda esteromane (il Raguet) o di una convenzione di rapporti antiquata e contrastante con le nuove esigenze di una società piú libera e razionalnaturale (le Cerimonie) senza la forza di trasformare in concretezza di situazioni e di personaggi motivi sostanzialmente escogitati intellettualisticamente. E piú interessante sarebbe (a parte la tradizionale indicazione di una precisa funzione pregoldoniana) precisare la linea di tentativi comici che (affiatata con elementi della commedia dell’arte e con una nuova attenzione alla commedia francese e specialmente molieriana) corre dal Maggi al Nelli in una articolazione di impegni e di acquisti almeno tecnici, configurabile in uno schema assai vicino e parallelo allo svolgimento della poetica arcadica: fra le sue impostazioni di fine Seicento e il consolidamento di forme espressive e tematiche, di moduli scenici e stilistici che inverano piú compiutamente la spinta arcadica ad una organicità nitida e piacevole, corrispettivo di una socievolezza e di una moralità razionalistica e fiduciosa, priva di impeti e scavi profondi, ma viva nel suo bisogno di dialogo e di lieta e saggia fruizione dei beni vitali.

E se solo con il Goldoni (e in una situazione personale e storica tanto piú ricca e matura) si potrà davvero parlare di dialogo nella sua accezione piú profonda e di coralità con ciò che essa implica di sensibilità e simpatia poetica per la concreta vita degli uomini e della loro società, certo è pur su quella direzione che si può articolare lo sforzo di poetica comica degli scrittori piú interessanti del primo Settecento: fra le commedie del Maggi, in cui una sincera moralità e un vivo senso di realtà vengon bloccati da un prevalere di sentenziosità e da una maggior vivacità dei monologhi (donna Fabia e Meneghino nella migliore delle sue commedie), la notevole disposizione del Fagiuoli al dialogo di due personaggi e all’incontro di battute a botta e risposta, con una particolare insistenza sul valore comico del caricaturale parlato campagnolo fiorentino, fino alle esigenze di un Nelli che tenta la coralità pettegola delle Serve al forno e piú felicemente struttura, nella Suocera e la nuora, una migliore corrispondenza fra la sua adesione persuasa agli ideali di vita e di arte della sua epoca, e la sua ricerca di animazione e di organicità, in alcune scene assai riuscite per l’incontro di movimento scenico e di parlato, in un dialogo piú vasto e in un modulo articolato e armonico dell’azione.

Meno direttamente saldabile a questa linea e alle preoccupazioni, a vario livello, della riforma teatrale e letteraria dell’Arcadia, è la figura del Gigli, come piú varie e disordinate sono la sua formazione, la sua esperienza di vita, la sua attività di poligrafo e di scrittore comico, e certo piú disuguale, estroso, ma anche piú vivo e originale è il suo ingegno. Mentre, d’altra parte, pur in una minore diretta partecipazione agli ideali arcadici di correttezza, eleganza, chiarezza, e nei limiti di una formazione che ha ancora qualcosa di secentesco, fra pedanteria e antipedanteria, fra acutezza, arbitrarietà di erudizione e gusto di poligrafo e polemista, non mancano nel Gigli legami evidenti con alcune esigenze del primo Settecento e specialmente con quel bisogno di nuova libertà e sincerità nei rapporti umani, con quella ricerca di un maggiore avvicinamento della letteratura alla realtà che, nel suo temperamento irrequieto e nel suo impulso realistico piú spregiudicato, lo condussero a reagire spesso agli aspetti piú compassati e diplomatici della società arcadica e a rappresentare un momento assai singolare nella stessa ripresa teatrale di primo Settecento.

Donde la difficoltà della sua vicenda biografica, l’espulsione clamorosa dalla Crusca e dall’Arcadia che sottolineano vistosamente i dissensi della società letteraria e culturale di primo Settecento con questo suo pericoloso e irrequieto rappresentante e la diffidenza con cui inizialmente venne considerata la sua stessa presenza nel rinnovamento del teatro comico alla luce di ideali piú regolari e «prudenti» di vita e di letteratura[2].

Senza voler fare del Gigli un ritratto romanzato esagerandone il presunto cinismo, l’amoralità e la furia satirica (donde anche viceversa vennero le condanne moralistiche dei suoi biografi ottocenteschi), ed anzi attenendoci alla testimonianza piú equilibrata del settecentesco Corsetti, non si può fare a meno di rilevare fortemente nel suo temperamento un’istintiva disposizione alla burla e alla polemica, un gusto del ridicolo e del grottesco in cui si fondono spinte piú profonde (lo sdegno per l’ipocrisia in tutte le sue forme) e un estroso piacere di far ridere, di movimentare comicamente l’ambiente che lo circonda. Egli stesso ci dice del resto di aver scritto «per passione e per dar gusto agli altri»[3], sí che anche nella sua satira piú violenta si mescola un compiacimento e quasi una volontà di provocare riso che, pur non smorzandone le punte ben incisive, deviano spesso la sua forza centrale verso effetti comici piú marginali e bizzarri.

E l’istinto di burla (e l’irrequieta insofferenza di fronte alle coercizioni del conformismo) era cosí forte in lui e nella sua vita pratica, che il Corsetti ci racconta come dopo aver dovuto passeggiare per Siena vestito da penitente (come gli era stato imposto da una confraternita cui apparteneva, per una precedente mascherata in veste di Don Pilone), il Gigli appena tornato a casa, buttato via il saio, si fosse messo al tavolino a scrivere un comico sonetto su «Don Pilone vestito da penitente».

Tuttavia questo istinto di burla e questo irresistibile bisogno di sfruttare le «miniere bollenti di ridicolezze» che la realtà gli offriva (come dice nella prefazione alla Sorellina di Don Pilone) trovarono nella vita del Gigli due obbiettivi principali contro cui la sua polemica si fece piú circostanziata e il suo gusto di rappresentazione ridicola piú precisamente satirico: la Crusca e l’ipocrisia dei falsi devoti. Contro questi due idoli polemici il suo umore satirico trova la sua forza maggiore e si esprime (con diversa intensità e in quella mescolanza di bizzarria e pedanteria che intorbida spesso il suo estro migliore) in quelle numerose opere non teatrali che l’abbondantissimo Gigli[4] scrisse con singolare piacere soprattutto negli anni del suo soggiorno romano: opere che accompagnano la sua produzione teatrale e che vanno considerate in un ritratto del Gigli a meglio intendere le parti piú vive della sua stessa opera di commediografo.

Nella polemica contro la Crusca (animata da un notevole spirito di libertà linguistica ma anche dal risentimento e dall’orgoglio cittadino che non può tollerare l’assoluto predominio linguistico fiorentino e difende i diritti del senese, e specie del senese trecentesco documentato nella prosa di Santa Caterina), il Gigli svolge soprattutto quella vena di satira linguistica che nelle sue commedie arricchisce gli effetti densi e gustosi di un linguaggio come quello senese campagnolo nella Sorellina di Don Pilone o come il fiorentino risentito e chiuso del Ser Lapo, e ben rivela quel gusto del giuoco linguistico, quel piacere del parlato, dell’equivoco, dell’immaginazione comica suscitata da un detto, da una parola colorita che in lui è tanto piú spontaneo e creativo di quanto lo sia nel Fagiuoli o nel Nelli.

Il Vocabolario cateriniano[5] è l’espressione piú intera di questa polemica e delle sue piú immediate possibilità comiche. Dalla constatazione e dalla difesa della legittimità della lingua adoperata da S. Caterina fuoriescono infatti bizzarre «piacevolezze», vere e proprie scenette comiche nel grottesco legame fra il divieto fiorentino di adoperare certe parole e l’arresto assurdo nello svolgersi di azioni designate con quelle proscritte parole. Cosí sotto la parola «corrire» (forma senese del verbo «correre») ecco i cavalli fiorentini che protestano al palio senese perché essi «intendono di correre, non di corrire», ed ecco un maniscalco «che mutando i ferri ad un cavallo di questi (i cavalli fiorentini) nel dire che fece: “Questo cavallo vuol corrire piú di tutti”, la letterata bestia tirogli un calcio a correzione»[6]. E sotto «dolce» e «indolcire», che fiorentinamente dovrebbero usarsi solo per le olive di pianura, si legge: «E pure vi è qualche fruttaiolo che non vuole piú indolcire le olive in Lombardia, perché essendo frutto di colli, non possono per proprietà di parlare, prendere dolcezza: e qualche speziale ancora non vuol piú mettere a condire le conserve allo specchio del sole perché il Tassoni gli ha tolto la virtú di indolcire»[7]. Risultati «piacevoli» di un umore comico che nel Vocabolario cateriniano finisce per ripetersi troppo e per confinare con quella «pedanteria alla rovescia» di cui il Carducci parlò a proposito del Giusti.

E la mancanza di misura, l’abbandono poco controllato ad un fervore di estro che si mescola continuamente a forme pedantesche, a faticosi e sofistici ragionamenti e confonde motivi piú freschi con diatribe personali poco chiarite e spunti di chiuso pettegolezzo cittadino, si ritrovano anche in quel curioso travestimento letterario-linguistico del suo umore anticruscante che è la Brandaneide, o in quel Collegio petroniano delle balie latine, in cui una trovata, una burla che pare fosse presa sul serio in qualche parte d’Italia (cioè la costituzione a Siena di un collegio di balie cosí dotte nella lingua latina da poterla insegnare, sin dalle prime parole, ai bimbi loro affidati!), si sviluppa, con parti felici, e noiose elucubrazioni, in un intero volume che vuol essere la satira del classicismo esagerato e di quella educazione a base unicamente latina che il Gigli vedeva come particolarmente e intenzionalmente favorita dai gesuiti.

Ed è qui che si salda alla polemica linguistica (con la sua mescolanza di motivi piú acuti di anticonformismo e di piú angusti risentimenti campanilistici) la polemica ben piú importante in cui il Gigli fondeva insieme il suo gusto di mettere in ridicolo tutto ciò che gli appariva innaturale, artificioso, pedantesco e una piú autentica ispirazione antigesuitica che può costituire il motivo piú consistente e storicamente significativo della vita del Gigli, legato com’era in lui (e nella cultura del suo tempo, però tanto piú prudente e cauta) ad un nuovo valore umano e civile: il valore della sincerità, della schiettezza naturale, essenziale ad una società a base razionalistica e fiduciosa nei propri ideali mondani, in un sostanziale nuovo senso di libertà. Anche se poi al Gigli mancava, a sostegno della sua irruente polemica, la profondità e consapevolezza culturale e ideologica che motiva e ben diversamente valorizza l’antigesuitismo di un Gravina.

Si prenda il Gazzettino (scritto a Roma nel 1712-1714) e in quel bizzarro e gustoso documento degli umori del Gigli, della sua irresistibile vocazione a cogliere le «ridicolezze» del proprio tempo, in quella singolare cronaca fantastica – in cui violente caricature, insinuazioni maligne (contro l’Arcadia, contro la Crusca, contro il severo Gravina e il suo giovane protetto, il Metastasio, contro la corte papale, ecc.) si collegano intorno ad una trovata estrosa (le amazzoni cinesi vengono a maritarsi in Europa precedute da una lettera dell’imperatore della Cina al papa) – si troverà che le punte piú dure sono quelle dirette contro i falsi devoti, e contro i gesuiti (contro i quali il Gigli scrisse anche una Lettera intorno ai presenti sconcerti della Compagnia): tanto che il Gigli immagina che i cinesi vadano a comprare della terra a Lucca «imperocché unicamente in Lucca, vera conservatrice della libertà, non allignano i padri gesuiti, che in tutto il resto del mondo pigliano terreno, e che, a guisa di gioglio, infettano la semenza del buon grano. Onde sopra ciò è uscito fuori il seguente sonetto:

È venuta dall’Indie commissione

di cento navi di terra lucchese,

perché tal terra nell’indian paese

hanno in gran pregio e gran venerazione.

Cosí Pisa ebbe un giorno in divozione

quel buon terren che un suo vascello prese

da Palestina, e il Cimiterio rese

illustre, ove si spolpan le persone.

Cosí pur d’altri lidi è a noi spedita

la terra di San Paolo virtuosa,

che i vermi uccide ed ai bambin dà vita.

Lucca è l’unico suolo, che ogni cosa

fa buona, e non v’alligna il gesuita.

Ed è terra perciò miracolosa».[8]

Tutto il Gazzettino del resto formicola di caricature non solo di gesuiti, ma anche di padri inquisitori domenicani, come quella del padre Campana («uno dei barbari piú accreditati della corte di Toscana»), inquisitore ambulante che «gira due o tre volte l’anno per lo stato riconoscendo dove siano scandali di femmine ed altri disordini intorno al sesto precetto», di confraternite di bacchettoni a cui si attribuiscono riti e consuetudini quanto mai bizzarre in relazione alla loro ipocrita pudicizia e a cui si assegna per santo il boccaccesco San Ciappelletto.

Ma certo il motivo antiipocrita, che si andrà poi precisando sempre piú chiaramente come antigesuitico, ha già nel Gigli il suo riferimento piú preciso (e la maggiore lotta contro di lui dopo la recita del Don Pilone fu condotta dai gesuiti senesi del collegio Tolomei); e comunque in nessun altro scrittore dell’epoca il tema molto diffuso della satira e caricatura del bacchettone (che non manca neppure in autori pii, ma piú chiaramente tesi appunto a distinguere la vera religione dalle forme dell’ipocrisia, della falsa devozione) ha tanta forza e implica una partecipazione cosí personale[9].

Naturalmente si calcoli la particolare tradizione toscana popolare e letteraria dal Boccaccio alla novellistica e commedia cinquecentesca, alle satire e commedie dell’ultimo Seicento (Menzini, Sergardi, Ruspoli, Ricciardi, Lamberti) che presero particolare valore di fronte all’ondata di bigottismo ufficiale sotto il granduca Cosimo III, quando l’invadenza di predicatori, direttori di coscienza, «preti di casa» toccò limiti preoccupanti anche per le persone piú seriamente religiose[10].

Nel Gigli, particolarmente intollerante di coercizioni e focosamente convinto della insopprimibilità di istinti e passioni naturali, questo tema polemico e satirico acquista una importanza centrale e a volte quasi caratteri di ossessione e di mania. L’ipocrisia e la falsa devozione sono descritte da lui (in ottave intitolate Dell’ipocrisia o del seminario degli affetti[11]), come la vera radice di ogni vizio piú abbietto:

Poiché del mal oprar la notte è manto,

e alla giustizia cuopre e alla ragione

furto, omicidio, sortilegio, incanto,

tradimento, adulterio e ribellione,

e quanto piú cieca vendetta e quanto

può macchinar l’invidia e l’ambizione

e la calunnia coll’ipocrisia,

nemica illustre della musa mia.

Dico, l’ipocrisia col cappellaccio

suol far notte sul viso avanti sera,

e che tiene a bacio volto il mostaccio

d’estasi in atto o in atto di preghiera,

tanto che piú nel fondo al campanaccio

batte, che in viso a lei del sol la spera;

ma in tanto buio ell’apre lo sportello

dell’occhio suo porcino e mira il bello.[12]

L’ipocrisia prende cosí nella immaginazione risentita del Gigli forma di personaggio prima ancora di precisarsi sotto lo stimolo molieriano del riuscitissimo Don Pilone. Sicché quello che sarà (nelle particolari condizioni di un originale rifacimento) il suo capolavoro presuppone questo personale atteggiamento, questo risentimento polemico che, senza perdere la sua tensione originaria, si traduce artisticamente attraverso una disposizione e preparazione del Gigli alla rappresentazione comica teatrale.

Questa disposizione egli l’aveva già sperimentata, prima del felice incontro con le commedie di Molière, in una lunga attività di scrittore teatrale documentata da due volumi: Poesie drammatiche e Opere nuove, pubblicati a Venezia nel 1700 e 1704. Nel primo (che cito nella seconda edizione del 1708) sono raccolti oratori (La Giuditta, Il martirio di S. Adriano, La madre dei Maccabei), cantate (Il sogno di Venere), drammi per musica (Genevieffa, Lodovico Pio, La forza del sangue e della pietà, La fede ne’ tradimenti, Amore fra gli impossibili), e nel secondo ancora drammi sacri (Il leone di Giuda in ombra ovvero Il Gioasso), cantate per musica (La via della gloria, La viola in pratolino, ecc.), oltre a una «invenzione drammatica» (Amore dottorato) e a due vere e proprie commedie (I litiganti e Un pazzo guarisce l’altro) che segnano l’inizio del periodo piú impegnativo della produzione comica del Gigli.

Si tratta di una produzione varia e vasta, documento soprattutto del vivo interesse del Gigli per l’espressione teatrale, e della sua esperienza di forme melodrammatiche, di forme serio-comiche della commedia italo-spagnuola, ed anche di procedimenti della commedia dell’arte di cui non mancano chiari ricordi anche in quei drammi per musica, che piegano sempre piú verso il comico e il grottesco.

Infatti, a parte gli oratorî piú falsi e convenzionali, nei drammi per musica si va sempre piú accentuando l’elemento comico e satirico piú congeniale alla natura del Gigli e in essi si può seguire un cammino che dalle forme piú goffe di volontà seria e melodrammatica (in cui le esitazioni patetiche, le assurdità di una tensione drammatica in soluzioni troppo sommarie, finiscono per produrre una involontaria comicità[13]), dall’esplicito diversivo di macchiette farsesche isolate (come quella di Squotamondo nella Genevieffa[14]) e dal gusto di contrasto serio-comico, tipico della commedia dell’arte e della commedia italo-spagnuola (che poi il Gigli adattava in forme piú rapide ad uso della musica), passa al netto prevalere dell’elemento comico-satirico in quei drammi come Lodovico Pio, La forza del sangue e della pietà, Amore fra gli impossibili, in cui piú scoperte sono la satira della cavalleria e l’utilizzazione dell’elemento romanzesco e storico (mutuato dalla commedia italo-spagnuola) in funzione di arricchimento grottesco del prevalente motivo comico-satirico.

Basti pensare alla presenza costante di un Don Chisciotte buffonesco trasportato, per effetti grotteschi, fra gli eroi dell’antica Grecia o fra i cavalieri medioevali, e di un Sancio che dà il giusto tono di irrisione e di parodia del cavalleresco e del romanzesco. Mentre cresce il numero dei personaggi caricaturali da commedia dell’arte (Squotamondo, Capitan spaccone, Coriandolo speziale, Calafrone tedesco-italiano ecc.) e piú libero e disinvolto si fa il ricorso a vere e proprie scene farsesche con balli e «zuffe»; e piú costante diviene l’utilizzazione parodistica delle finezze del linguaggio melodrammatico o dell’eletto linguaggio patetico della tradizione petrarchesco-tassesca: «Amico hai vinto, io ti perdon, perdona / a Don Chisciotte no, che nulla pave ecc...». «E in questa forma / è cotto il scemarello e par che dorma»[15].

Assai piú tardi (nel 1712) il Gigli portò avanti il suo gusto di riduzione comica del tono melodrammatico fino alla costruzione di un festoso intermezzo, La Dirindina, anticipatore di simili componimenti del Metastasio (L’impresario delle Canarie), del Goldoni, del Casti. E in quell’operetta singolarmente ilare ed estrosa, in cui il Gigli dimostra la sua partecipazione a problemi ed a temi del teatro del suo tempo (e fra questi vi era appunto la critica in forme parodistiche al teatro musicale ed alla vita frivola dei cantanti), ben si realizzano la conversione del patetico in comico, la capacità di dar vita a piacevoli personaggi rapidi e vivaci, anche se in un linguaggio meno fluido ed elegante di quello dei settecenteschi che lo seguirono nel genere del melodramma e dell’intermezzo «giocoso»[16].

Ma la Dirindina è sostanzialmente una prova piuttosto isolata e lo svolgimento del Gigli passa dai drammi per musica ricordati alle due commedie che concludono il volume delle Opere nuove, Un pazzo guarisce l’altro e I litiganti, e che segnano il passaggio dall’attività precedente alle commedie stimolate piú direttamente dal teatro francese e dall’esempio di Molière. La prima (chiamata dall’autore «serio-ridicola») risente ancora dei modi della commedia italo-spagnuola e si ricollega agli ultimi drammi per musica nella presenza del solito Don Chisciotte, nell’abbondanza crescente di personaggi comici, nella satira dell’amor platonico[17], ma anche nel giuoco di contrasti serio-comici e nella concessione ad «equivoci meravigliosi» e di bizzarre ed ingegnose metafore ed iperboli di gusto in parte ancora secentesco.

Piú decisamente comica e satirica, e quindi piú avanzata nel distacco dai legami con la commedia italo-spagnuola, è la commedia «satiricomica» (come la chiamava il Gigli) I litiganti, che usufruiscono dell’esempio dei Plaideurs di Racine, ma ne rimaneggiano lo schema originale in una forma piú disordinata e piú violentemente comica.

Tolto di mezzo l’elemento serio e patetico (in cui il Gigli dei drammi precedenti si dimostra poco piú che un mestierante), lo scrittore senese si abbandona nei Litiganti al suo gusto piú istintivo di una comicità che sconfina continuamente nel grottesco e che, nella sua indubbia forza aggressiva, nel rilievo dato ad una realtà sentita comicamente e senza «illeggiadrimenti», finisce poi per svolgersi in ripetizioni, in forzature di sviluppi eccessivi, ma pure con un suo vigore innegabile, con una particolare inventività teatrale e linguistica.

La commedia è, cosí, ricca di molte punte vive: soluzioni sceniche felici (la scena dell’osteria con il giudice maniaco che scivola sotto il tavolo a giudicare la lite di un cane e di un gatto che lo mordono e graffiano, la scena di Amaranto che appare all’improvviso a Noferi scendendo dal camino), vivacissime macchiette insaporite da motivi autobiografici e dai motivi della polemica linguistica (l’oste genovese che narra: «Ghe avevo una toa de foestè accompagnè da o procaccio de Venezia, tra i qué ghe ea un bergamasco, un calabrese, un zenese, un bolognese, che litigavano insieme a chi parlava megghio italian»; l’amara satira della corte romana[18], l’ironia sulle proprie opere che il poeta trova nell’osteria adoperate per involgere fegatelli e prosciutti) e, al centro, la sfaccettata caricatura dei litiganti che passano la vita fra i processi per il puro amore della lite.

E il linguaggio (con le sue tonalità diverse nel bolognese del giudice, nel fiorentino di Noferi, ma con il suo comune fondo di densità realistica e di risentimento satirico e grottesco) esprime questa ispirazione disordinata, ma impulsiva e sincera, e (come non avviene invece nel Fagiuoli tanto piú debole e superficiale) supera il semplice scherzo da «linguaiolo» nella forza comica e mimica della parola, nel disegno a linee marcate e corpose.

Per cui anche nelle scene piú caricaturali e farsescamente assurde si avverte una comicità estrosa, una singolare capacità di raggiungere un grottesco efficace anche attraverso un giuoco di parole, con l’esasperazione di caratteri ridicoli di ingenuità, dabbenaggine, mania: come in quella scena VIII dell’atto II in cui l’avarissimo Noferi picchia il notaio travestito da caporale degli sbirri che è venuto a notificargli le tasse, mentre l’ingenua e pietosa Isabella esorta il padre a desistere dalla sua azione offensiva per la giustizia.

Notaio:

Dichiaratevi se date a me.

Noferi:

A vo’ messersí; e se vo’ siate sordo da questa gota, eccovene una piú forte da quest’ailtra.

Isabella:

Signor padre non faccia, che benché siano sbirri, sono di carne come noi, poverini!

Noferi:

L’ha a esser una carne ch’ha da costar salata anch’a te, mozzina.

Notaio:

Due schiaffi, scriviamo. (Scrive). Il qual signor Noferi dopo aver trattato male di parole me caporale infrascritto, mi percosse con due mostaccioni, prima dalla mancina, poi dalla dritta, e mi fece cadere in terra il cappello.

Noferi:

(gli dà un scappellotto). Fa a mo’, segnaci anche questa per il coilmo della misura.

Isabella:

Finalmente fanno l’offizio loro, signor padre.

Noferi:

Stà cheta, che e’ vuol essere un offizio, che ti vuoil fà sentí sonar a doppio anche a te, la me ragazza.

Notaio:

Durate, durate, che per me son tanti zecchini gigliati; appunto ho da far le spese a quattro figliolini; di grazia datemi ancora bastonate o almeno qualche calcio.

Noferi:

Vo’ ate fortuna che a’ piedi i’ ho le gotte e i bastone i’ l’ho lasciat’a casa, che d’i resto.... Bazza voistra per questa voilta, i’ non sapre’ che mi ci dire. Ma pur, accettate i buon, animo. Tenete. (un altro scappellotto).

Isabella:

Signor padre, que’ quattro figliuolini, carità, carità.

Noferi:

Oh la carità ci vuol essere anche per te, di sicuro, ma a man chiusa.

Notaio:

Ohimé, ohimé che ho sputato! Ohimé!

Noferi:

Che ha egli sputato! La mi par una noce!

Isabella:

Che non gl’ abbia fatto venir su la noce del piede! Uh meschin’ a lei.

Notaio:

Ohimé, che son stroppiato! Ohimé, che m’è uscita la noce del piede!

Noferi:

Con quei scappellotti i’ gh’ ho chiarito la voce. Pah, i’ sarè pur i caso a dar lezione a’ musici. Ma, escí dalle burle, ghi zoppica davvero lui.

Notaio:

Ohimé la mia noce del piede! Ecc.

Ma la vivacità e densità del linguaggio comico, la capacità di riassorbire ed esprimere nel parlato la forza comica di certi procedimenti della commedia dell’arte, il gusto istintivo di accentuazione caricaturale e di deformazione comico-satirica della realtà trovano ben altro risultato quando il Gigli incontra la commedia di Molière e attraverso lo stimolo del Tartufe è ricondotto al motivo satirico e polemico piú in lui profondo, e nella salda costruzione della commedia francese trova un appoggio e una misura alla propria fantasia fertile e disordinata[19].

E si precisi subito in che senso vanno intesi i rapporti fra il Don Pilone e il Tartufe. Nel Settecento la grande popolarità della commedia del Gigli fece praticamente dimenticare le sue relazioni con il testo di Molière, sicché poi gli studiosi del periodo positivistico, indagatori di fonti e di derivazioni, tanto piú vivacemente rilevarono la dipendenza della commedia del Gigli da quella francese, e addirittura il Mazzoni disse che non si trattava che di una traduzione o al massimo parafrasi senza veri pregi letterari[20].

Sicché il Gigli, nell’avvertimento «A chi legge» avrebbe assai esagerato l’originalità del proprio lavoro: «Il soggetto di quest’opera del Don Pilone è tirato dal celebre Tartufo del Molière; ma egli è cosí mutato nel passaggio che ha fatto da un idioma all’altro, che il Don Pilone è oggidí un’altra cosa che non è il Tartufo. Il dialogismo è tutto variato, l’idiotismo, la sentenza, il sale. Molte scene ci sono aggiunte del tutto; molti episodi e tutti gli intermedj, i quali sono una continuata satira contro la falsa pietà, espressi per via d’azione muta, all’uso de’ Mimi antichi. Insomma leggi il Tartufo o nel teatro del Molière, o nella traduzione italiana sotto l’istesso nome, e leggi il Don Pilone, che ne apprenderai la diversità».

In realtà un senso piú sicuro della originalità artistica anche in casi «minori» ci permette di intendere, meglio di quanto fosse possibile agli studiosi del periodo positivistico, il valore del Don Pilone (certo la commedia piú resistente e viva del teatro pregoldoniano) e la sostanziale giustezza della dichiarazione del Gigli.

È vero che il Gigli segue la trama del Tartufe e che in alcune scene traduce alla lettera, ma, non solo, come egli dice, aggiunse scene, episodi, intermezzi, ma soprattutto portò nella sua opera una intonazione propria a cui aggiunte, spostamenti, tagli (l’azione è raddensata in tre atti) sono organicamente coerenti, come sostanzialmente coerente lo è ogni accentuazione di battuta, ogni particolare nuovo. Ciò che colpisce alla lettura e meglio alla rappresentazione (dove le vere qualità teatrali del Gigli hanno il loro pieno sviluppo e si precisano meglio le stesse essenziali caratteristiche del suo linguaggio denso, realistico e deciso, capace di un dialogo fitto e intrecciato) è proprio questo fatto fondamentale: il Gigli ha saputo creare, nella ripresa del Tartufe e nella simpatia ispirativa della situazione centrale (il personaggio molieriano corrispondeva ad un motivo essenziale della polemica e della fantasia del Gigli), un suo tono, un suo ritmo coerente, a volte modificando appena il testo francese, a volte cambiandolo profondamente, ma sempre seguendo sostanzialmente una sua personale direzione piú risentita e realistica, piú apertamente comica, meno sfumata e sottile di quella del capolavoro molieriano.

Si noti anzitutto come il Don Pilone rispecchi bene e coerentemente la vita di una città provinciale toscana, che ben traspare sotto l’indicazione generica di «una città o terra della Francia, che non importa qual sia», ma che comunque non è Parigi come nella commedia di Molière. L’azione si colloca in Francia per naturali ragioni di prudenza (che poi vennero scartate nella Sorellina di Don Pilone quando il Gigli era ormai allo sbaraglio nei confronti dei suoi concittadini), ma si toglie la precisazione di Parigi per meglio lasciare sentire l’aria di una piccola città con i suoi pettegolezzi, in un piccolo ambiente borghese, in un riferimento ben chiaro alla situazione di un tempo, di una vita familiare insidiata dalle arti del falso bacchettone (che è il sottotitolo toscanissimo della commedia), che con qualche ambiguità riflette insieme la condizione di intriganti falsi devoti (e il Gigli mirava in parte a un certo Feliciati consigliere di sua moglie) e quella del cosiddetto prete di casa che piú frequentemente in quell’epoca costituiva un complemento non sempre gradito della famiglia toscana di condizione agiata.

Cosí, davanti alla casa di Buonafede, nella sospettosa fantasia della vecchia Pernella, non c’è il via vai di carrozze e di lacchè degli eleganti ammiratori che c’è davanti al palazzo di Orgon, ma solo il «ronzare» di «cani grossi e mosconi» «che danno molto da dire al vicinato» e che suggeriscono un proverbio popolare assai crudo e realistico: «E sai come dice il proverbio? che certe sorte d’animali non s’aggirano che dove la carne si vende», mentre nel giro elegante del verso molieriano Pernelle concludeva molto piú dolcemente:

Je veux croire qu’au fond il ne se passe rien,

mais enfin on en parle, et cela n’est pas bien.

Una diversità simile di battuta ci fa passare dalla considerazione dell’ambientazione diversa del Don Pilone a quella della sua comicità piú risentita e realistica e del suo coerente linguaggio piú denso e corposo.

Non solo si osserverà la piú esplicita allusione dei nomi, la loro natura piú apertamente comica (Buonafede invece di Orgon, Don Pilone – il baciapile – invece dell’ombroso, sottile Tartufe, Piloncino invece di Laurent), ma specie nella voce cosí fresca e spregiudicata di Dorina (che è davvero una creazione tutta nuova e coerente all’ispirazione piú vera del Gigli e a quella tradizione di realismo che sale a lui anche dalla novellistica toscana del Cinquecento) si noterà una costante deformazione del testo molieriano in battute tanto piú aperte e franche, da rapida e prontissima botta e risposta, con immagini realistiche e comiche che accentuano un sapore di concretezza, di rilievo di motivi istintivi: avidità di «roba», «danaro» e «carne» nei viziosi, franca sensualità e desiderio di gioia e di vita libera nei giovani.

Cosí Dorina esprimerà francamente la sua insensibilità al fascino di Don Pilone che la rimprovera di turbarlo con il vestito poco accollato: «In queste tentazioni voi ci siete piú tenero di me; perché io, se vi vedessi nudo da capo a piedi, certo mi fareste meno appetito assai di quello che me ne facesse un bel coscio di prosciutto», mentre Molière girava e diluiva la risposta della cameriera in un discorso, se pure assai esplicito, tanto piú letterario e alleggerito dal giro elegante del verso.

Vous êtes donc bien tendre à la tentation,

et la chair sur vos sens fait grande impression!

Certes je ne sais pas quelle chaleur vous monte:

mais à convoiter, moi, je ne suis point si prompte,

et, je vous verrois nu du haut jusques en bas,

que toute votre peau ne me tenteroit pas....

E si pensi alle battute di Dorina, nella prima scena del primo atto, sulle vecchie pinzochere con le loro esagerate preoccupazioni di pudicizia e la loro ossessione erotica, che sono tutte aggiunte dal Gigli, o, nella presentazione del falso devoto, alla sua esortazione a Piloncino che tanto bene può mostrare la diversità di intonazione, l’accentuazione di linguaggio piú crudo e di particolari che accrescono la caricata evidenza di quel personaggio: «Piloncino, lava ben bene quel mio cilizio insanguinato, e metti due altre punte di chiodo alla disciplina. Se la serva entrasse a spazzar la camera, sovvengati di tener gli occhi bassi e nasconditi inginocchiato dietro al letto. In caso che qualche buona persona venisse per visitarmi, dille che sono andato alle Stinche a portar certe limosine a quei poveretti, e di poi vado a casa di quella vergognosa a portarle due giunte per la sua gonnella». Mentre in Molière la battuta è piú semplice e breve:

Laurent, serrez ma haire avec ma discipline,

et priez que toujours le Ciel vous illumine.

Si l’on vient pour me voir, je vais aux prisonniers,

des aumônes que j’ai partager le deniers.

Sia che allunghi, sia che raccorci le battute, il Gigli sa ricreare un suo ritmo coerente e le stesse battute piú apertamente grottesche ed esagerate[21] (quelle che sono cosí abbondanti nei Litiganti e che qui invece sono calcolate con maggiore sobrietà), mentre ci rivelano nella loro novità rispetto al testo molieriano come l’ispirazione del Gigli tendesse appunto ad un tono piú risentito, piú apertamente comico, ad un uso di immagini piú popolaresche, colorite e realistiche, si rivelano insieme bene affiatate con tutto l’organico svolgersi della commedia nella nuova direzione impressagli dal Gigli.

Ed anche il ritmo dell’azione e della scena reso piú denso e mosso (con maggiori spezzature di discorso e con un serrato intreccio di domande e risposte, che solo il Goldoni piú tardi, ed in maniera tanto piú poetica, otterrà) può essere portato alla linea piú rilevata, in accordo con la caratterizzazione piú caricata dei personaggi, dalla aggiunta di una semplice battuta e di un particolare mimico e scenico.

Cosí, nella scena quinta dell’atto terzo, all’inizio del secondo e decisivo colloquio fra Elmira e Don Pilone, il Gigli, diversamente da Molière, fa sí che Don Pilone, meravigliato dall’insperato linguaggio benevolo di Elmira, torni alla porta per vedere se è ben chiusa, interessato com’è a non essere disturbato in un dialogo che gli si presenta cosí importante (mentre nelle primissime battute aveva chiuso la porta solo dietro la preghiera di Elmira). E questo movimento, che è un originale approfondimento della vita del personaggio e un’abilissima preparazione all’intensa attenzione del dialogo che segue, serve anche ad inserire un rapido dialoghetto fra Elmira e Buonafede che «fa capolino di sotto al tavolino», con l’effetto di tutto un movimento maggiore e di una piú articolata e scattante graduazione di comicità.

Ma d’altra parte il sostegno del testo molieriano, specie nel difficilissimo dialogo tra Elmira e Pilone, suggerisce al Gigli una maggiore misura, un uso piú discreto e perciò tanto piú efficace dei suoi mezzi comici che in altre opere gli prendono la mano e finiscono (accanto a scene ricche di umore grottesco) per sopraffare il disegno dell’azione, esaltandosi della propria vivacità in un giuoco bizzarro e disordinato.

In tal senso gli intermezzi, di cui il Gigli si vantava per la loro scoperta e violenta satira di bacchettoni e pinzochere, sono sí interessanti a comprovare la tendenza della sua ispirazione tanto piú corposa e grottesca e della sua polemica antiipocrita soprattutto diretta a rivelare la sfacciata avidità sensuale nascosta sotto le forme del bigottismo, ma indicano anche come, in una assoluta indipendenza da Molière, egli si lasci andare a scherzi piú grossi, a una comicità piú pesante. E in sostanza, se quegli intermezzi eran destinati anche a portare sulla scena maggior movimento e vivacità, la commedia ci appare non bisognosa in assoluto della loro presenza che accentua esageratamente la tendenza alla caricatura ed alla deformazione grottesca[22], mentre nel corpo dell’opera questa stessa tendenza, essenziale alla natura del Gigli, si era piú accortamente misurata e controllata nel contatto con il testo molieriano.

Il Gigli non trovò piú la sicurezza e l’equilibrio del Don Pilone, in cui, nella condizione particolare di un rifacimento che diventa a suo modo nuova creazione personale, egli seppe far vivere personaggi ed azione, esprimere in un accordo di voci e di caratteri, di situazione comico-satirica e di autentico movimento teatrale, un proprio mondo di sentimenti accordati con essenziali motivi del suo tempo e originalmente maturati fra i suoi estri ed umori geniali e disordinati.

Non possiamo infatti mettere sullo stesso piano di risultato del Don Pilone le due commedie che pure ci appaiono piú ricche di spunti comici, di soluzioni vigorose e di quell’essenziale piglio fresco e deciso che distingue il Gigli da tutti gli altri commediografi del primo Settecento.

Nella prima di queste commedie, il Gorgoleo, il Gigli (come fece anche su di un piano ancora piú apertamente farsesco, ma con minore energia, nelle Furberie di Scappino) si cimentava ancora con una commedia di Molière, Monsieur de Pourceaugnac. Ma qui l’impegno satirico era meno profondo nello stesso commediografo francese e la situazione centrale (la satira di un provinciale venuto a Parigi per prender moglie e preso nella girandola di burle con cui dei giovanotti parigini lo spaventano e lo persuadono ad abbandonare la città ed il matrimonio) si prestava ad un giuoco piú libero ed estroso con ricorso a procedimenti mimici e a trovate lazzesche della commedia dell’arte.

Il Gigli si lanciò con impeto in quella direzione accentuandone il carattere caricaturale e grottesco e disperdendo in una piú calcata trivialità quanto di piú finemente malizioso vi era nella congiura dei giovani parigini ai danni del provinciale e nell’amore fra la giovane promessa a Pourceaugnac e il capo della comica congiura. Cosí il Gigli toglie subito di mezzo la raffinata Parigi del grand siècle e porta l’azione a Nettuno, in un ambiente di piccola città centrale, dove il contrasto del calabrese Gorgoleo (ripresa di una maschera della commedia dell’arte) con i furbi e scanzonati giovanotti paesani è portato su di un grado molto piú basso di rozzezza (piú rozzi i burlatori, rozzissimo il burlato) e la dabbenaggine, la vanagloria, la pretesa di eleganza, la grossolanità del burlato sono spinte all’estremo e dipinte a pennellate grosse e dense, con colori carichi e vistosi, secondo una tecnica di comicità per eccesso, assecondata dal linguaggio realistico (Gorgoleo «si forbisce la bocca nella corvatta», «smoccola» le candele con le dita ecc.) e destinata chiaramente ad un effetto di grottesco, di ridicolo da mascherata: «Penso che sarà uno spettacolo piú ridicolo che di vedere in Roma a Piazza Navona gli orsi colla cresta e con la mantiglia».

Ma le burle pesanti nella persecuzione senza esclusione di colpi del povero Gorgoleo (il quale piú che in Molière ha un suo comico modo di reagire scambiando le burle per effetti naturali di un mondo irrazionale e pazzesco e giudicandolo, fra impaurito e indignato, dall’alto della sua grottesca dignità di «governatore delle isole natanti» dell’arcipelago tiberino: motivo questo del Gazzettino) finiscono per accumularsi tumultuosamente, e raramente (anche se sempre cariche di estro e interessanti per la violenta e bizzarra immaginazione da cui sono promosse) riescono a precisarsi e comporsi in scene interamente coerenti ed efficaci,

Come sono certo le scene finali dell’atto primo, in cui la stessa trivialità è come bruciata nell’estrema libertà estrosa del ritmo grottesco (tanto superiore a quello degli intermezzi del Don Pilone), in una ridda di atti, oggetti, allusioni comiche ed assurde, esaltate da un’accensione verbale ed immaginosa che supera di gran lunga il mediocre giuoco di equivoci verbali di altri commediografi dell’epoca. Il «linguaiolo» Gigli aveva ben altra forza aggressiva e comica nel suo linguaggio denso e spregiudicato, anche se troppo spesso non riusciva a dominarla e organizzarla per coerenti azioni comiche unitarie.

Alla fine del primo atto, Molière aveva fatto condurre dai suoi burlatori Pourceaugnac in una casa di cura e questi, mentre crede di essere affidato alle premure di un maestro di casa in un palazzo ospitale di amici, viene sottoposto ad un lungo consulto di due medici che lo giudicano pazzo e, dopo averlo comicamente salutato con una canzoncina in italiano, gli inviano un apothicaire con un «serviziale» che essi stessi e degli infermieri, grottescamente vestiti, invano tentano di far accettar all’indignato ed involontario paziente.

Ma che cosa diventa questo finale grottesco nelle mani del Gigli! Mentre il lungo consulto dei medici perde qualche elemento della satira molieriana contro la Faculté e la medicina del tempo (quasi un corollario del Malade imaginaire), le scene finali sono trasformate in un trionfo esaltato di grottesco e la linea piú sottile e rapida della commedia francese si ingrossa e si complica con variazioni che ne accentuano e ne arricchiscono il ritmo sempre piú tumultuoso ed intenso.

Gorgoleo, già turbato dal consulto e desideroso solo di soddisfare la sua voracità con un buon pranzo, è circondato da due musici vestiti da ninfe e accompagnati da vari strumenti e buffoni che saltano, mentre le ninfe, ripreso il tema della canzoncina di Molière, lo espandono in una bizzarra cantata a cui Gorgoleo oppone l’espressione del suo stupore e della sua crescente indignazione, e le sue accorate richieste del pranzo invano sperato.

Ed ecco che alle sue invocazioni risponde invece un infermiere che giunge col serviziale e in una lunga scena, mentre i buffoni saltano intorno a Gorgoleo in fuga, con gli strumenti occorrenti al rimedio curativo cosí diffuso tra Seicento e Settecento insieme al salasso ed alle purghe, le ninfe esaltano gli stessi strumenti nelle loro virtú e nei loro geniali inventori con un crescendo che, imperniato sulla ripetizione del nome evocato e sulla forza della declamazione alternata delle due ninfe, provoca un effetto indiscutibile di forte comicità.

L’altra commedia che occorre ricordare dopo Don Pilone e Gorgoleo è quella Sorellina di Don Pilone che ebbe pure fortuna nel Settecento e alla cui recita a Perugia partecipò il Goldoni adolescente. Essa rappresenta il tentativo da parte del Gigli di costruire una commedia senza l’appoggio di altri testi e di sfruttare al massimo la propria diretta esperienza di un mondo ridicolo, gretto e falso, in cui le sue stesse vicende personali portavano una carica di particolare risentimento, ma non quel gusto di cinismo che poté colpire sfavorevolmente critici antichi e recenti per ragioni moralistiche e che potrebbe ugualmente falsare una retta interpretazione di quest’opera se si volesse complicare l’atteggiamento del Gigli insieme ad una possibile forzatura del suo spregiudicato istinto comico e del suo autobiografismo in forma di profondo tormento drammatico.

Il Gigli (come narra la lettera di prefazione attribuita ad un amico), in un suo ritorno a Siena per necessità economiche, fu convinto dagli amici a prendere alloggio nella casa della moglie, Laurenzia Perfetti, da cui lo separava da tempo la «differenza di natura e di genio»[23], e fu da quella malissimo accolto mentre fu trattato con grande fedeltà da una vecchia serva vedova, Cecilia, semplice e desiderosa di passare a seconde nozze. Ma la semplicità della povera donna stimolò il Gigli a intessere una burla alle sue spalle inventandole la possibilità di una dote assegnata da un benefico signore alle meretrici ravvedute e quindi subordinata all’iscrizione della postulante nell’albo di quella professione. «Sospirò madonna Cecilia a questa proposizione e forse sospirò piú forte per il rammarico di non aver fatto a’ suoi giorni la meretrice, di quel che sospirino le convertite di tutto il mondo per averla fatta».

Alla burla combinata dal Gigli con altri suoi amici iscrivendola su di un falso albo delle meretrici senesi e alle vicende con cui il poeta spiantato tentò di recuperare dei bauli dalle avide mani della moglie mal consigliata da un falso devoto, intrigante e mettimale in varie case senesi, si rifà la commedia sulla cui genesi cosí si esprime la lettera citata: «Avendo pertanto il Gigli una miniera bollente di tutte queste ridicolezze, pensò ultimamente di darla fuori in una farsetta satirica da rappresentarsi dopo la commedia, e con questo disegno furono principiati i primi atti; ma crescendo la materia alla penna, la farsetta divenne commedia concepita, partorita e fatta salire al palco nel termine di tre settimane» (gennaio 1712).

Ora, se la materia autobiografica porta nella precisa ambientazione senese (con la voce di senese campagnolo della vecchia Credenza-Cecilia) un acuto senso di realtà, che si intona bene al gusto essenziale del Gigli, presente sempre con i suoi risentimenti, con le sue passioni e con il suo piacere di «dar gusto ad altri» nelle sue opere, non si può non osservare come la eccessiva aderenza alle troppe «ridicolezze», e lo stesso sviluppo del disegno, fattosi sempre piú vasto e complicato di trovate e di personaggi, siano stati motivo di squilibrio e di dispersione in un’opera inizialmente cosí promettente e poi sempre piú slabbrata e confusa, anche se ricca di caricature e di scene vivacissime.

Efficaci sono davvero (e tali da testimoniare le autentiche capacità del Gigli di impostazione scenica, di dialogo sciolto e sicuro) le prime scene con il ritorno di Geranio (il personaggio autobiografico) accompagnato dal giovane segretario «con un cane legato ed una valigia sulle spalle», stanco e povero, indotto dall’amico Boncompagno ad accettare l’alloggio in casa della moglie taccagna e bacchettona, ma subito oppresso dall’insopportabile atmosfera di sordidezza e di falsità della casa già in altri tempi dolorosamente sperimentata.

Si rilegga l’inizio della commedia, cosí franco e bene impostato sulla voce sardonica e decisa di Geronio.

Geronio:

Con tutto ch’io sia mezzo stroppiato, come vi dissi, per una caduta, e stracco, che non ne posso piú, tanto non vi darà l’animo il condurmi ove credete. Signor Boncompagno mio, lasciatemi stare, e lasciatemi andare alla locanda. Sapete voi che da Roma a qui sono venuto in ventiquattro ore? La cambiatura, le cattive strade, la pioggia, col male addosso, mi hanno sconquassato.

Boncompagno:

Tant’è, signor Geronio, non voglio che si dica che in Siena vostra patria voi dobbiate alloggiare alla locanda; avete la casa della moglie bella e buona....

Geronio:

Bella e buona, a chi si riferisce? Alla moglie o alla casa?

O si legga il dialogo fra Geronio ed Egidia, sua moglie, nella scena quarta dell’atto primo:

Geronio:

Tiberino, fatevi insegnare la mia camera e riponetevi le mie robe.

Tiberino:

Illustrissimo, sí.

Credenza:

Andiamo giovanetto. Uh come si fanno savi a Roma! Altra cosa che queste fulene di Siena. (parte con Tiberino)

Geronio:

Questo è un giovine d’ottima indole e di una civilissima nascita ancora. Ha un carattere franco e corretto, quanto qualsivoglia segretario di corte.

Egidia:

Quanto a me, questa segreteria la lasserei tenere a’ principi.

Geronio:

Ma come ho da supplire a tante lettere con personaggi e con letterati?

Egidia:

Lasciarle stare coteste lettere.

Geronio:

E tante scritture per le mie stampe?

Egidia:

Lasciarle stare le stampe ancora.

Geronio:

Massime vili di voi altre donne! E la promessa fatta al mondo di tanti libri? Certo se io non li finisco, mi chiameranno l’autore de’ frontespizi.

Egidia:

Massime di donne, sí. Eh marito mio, vorrei che pensaste alle promesse e a’ debiti pe’ quali ci troviamo in questo stato.

Geronio:

A’ soliti discorsi: come se voi non sapeste le liti patite nell’eredità...

Egidia:

Le commedie in musica, le cantatrici...

Geronio:

Tiberino, ripiglia il fagotto!

Ed anche l’apertura del motivo della serva Credenza è felice e promettente, con questa figura fra caricatura e simpatia, a contrasto, nella sua semplicità e nella sua istintività, con l’avveduta e sospettosa grettezza della padrona, di cui poi si riveleranno meglio le varie debolezze, la carità pelosa, l’equivoca condiscendenza verso il giovane segretario (che finge a bella posta grande modestia e pietà), ma che solo in queste prime scene ha una sua vitalità sicura e sostiene bene anche il peso di certi eccessi caricaturali e grotteschi essenziali all’arte del Gigli, ma pericolosi quando si fanno termine di semplice divertimento di «pedante alla rovescia».

Presto la maggior compattezza iniziale si sfalda progressivamente e l’intreccio dei due motivi, con la complicazione dei numerosi personaggi e delle loro varie intenzioni, soffre ristagni, ripetizioni, sviluppi particolari troppo calcati, e la figura di don Pilogio (variazione di Don Pilone) non riesce a ben costruirsi e ad ingranare nell’estroso e complicato finale, in cui le burle, le trovate (quella comica e scurrile di Credenza vestita con la «camicia della modestia»), i travestimenti di abiti e di linguaggio (il falso tedesco di Tiberino camuffato da marchesa di Poppegnau), i balli e i canti di numerose maschere, concludono in maniera troppo esterna e farsesca una commedia iniziata con tanto vigore.

La tendenza piú dispersiva della fantasia del Gigli ha finito per prevalere seguendo le varie offerte delle «ridicolezze» della sua avventura biografica, della materia cresciutagli fra le mani e priva di quel potente correttivo di misura e di organico disegno trovato cosí fortunatamente nel testo molieriano per il Don Pilone. Sicché, mentre l’abbandono al farsesco nel finale non riesce neppure a raggiungere il gusto del gratuito grottesco di certe scene del Gorgoleo, l’impegno di organicità e di commedia originale, cosí bene mantenuto all’inizio, progressivamente si dissolve.

Malgrado tutti questi limiti La Sorellina di Don Pilone rimane una delle opere interessanti del Gigli, un documento di istintiva forza comica anche se minata dal disordine e dall’esuberanza dispersiva, e certo dialogare serrato e sicuro, la freschezza del parlato (e, quando questo è piú ispirato, appare inutile ed assurda la proposta del Sanesi di distinzioni e tagli fra parti piú «ragionevoli» ed eccessi estrosi), la vivacità dello scatto dei personaggi non saranno eguagliati durante il primo Settecento.

Ed è la forza del linguaggio risentito ed aggressivamente comico quella che piú singolarmente anima un’altra commedia del Gigli, Ser Lapo ovvero la moglie giudice e parte, imitata da una commedia del Montfleury e non molto notevole quanto ad azione generale, ma fortemente individuata nel chiuso linguaggio fiorentino del protagonista, Ser Lapo, un vecchio egoista che crede lecito tutto alla potenza del denaro ed alla propria rozza e gretta furberia. Non direi con il Sanesi che qui si giunga al drammatico, ma certo in quella figura, nella sua egoistica vitalità e nella sua espressione originale di linguaggio acre e risentito v’è una serietà che si mescola al grottesco in situazioni di una comicità piú aspra che piacevole.

Ma il personaggio di Ser Lapo rimane isolato nell’ambiente piú civile e convenzionale in cui il Gigli riprende con minor risentimento personale il tono della commedia francese tradotta e rifatta. Piú fedele ancora all’originale e alla sua mediocre disinvoltura è quella commedia I vizi correnti all’ultima moda (Les moeurs du temps del Palaprat) che pare risolvere lo svolgimento del Gigli in una adesione piú esterna e facile ad uno schema di movimento complicato e nitido senza forte partecipazione personale e senza quelle caratteristiche di accentuazione e deformazione comico-satirica proprie del Gigli, senza il risentito colore del linguaggio che qui si fa sin troppo scorrevole e facile e denuncia la fine effettiva delle piú genuine qualità comiche dell’autore del Don Pilone.


1 È in sostanza la posizione che corrisponde piú da vicino alla mediocre proposta di ripresa della commedia erudita cinquecentesca da parte del Crescimbeni (Dialogo VI della Bellezza della volgar poesia). Mentre la posizione piú tarda di un Nelli, che ha assimilato piú interamente le esigenze della poetica arcadica matura, può essere avvicinata alle proposte piú complesse (e in qualche modo persino pregoldoniane) del Muratori nel libro III, capitolo VI della Perfetta poesia italiana, a parte il rifiuto di questo, per preoccupazioni religiose, della esemplarità molieriana («giungono alcuni a sospettare che dal Molière non fosse ben conosciuto chi governa il mondo e il cielo»): ciò che può far tanto piú risaltare la particolare audacia del Gigli nella sua ripresa del Tartufe (che poté esser presente anche al Maggi del Falso filosofo, ma in una caratteristica trasformazione del «devoto» in «filosofo»).

2 Nato a Siena il 14 ottobre 1660, il Gigli (nato Nenci, aveva preso il cognome da un lontano parente che lo aveva lasciato erede di un grosso patrimonio) passò la sua vita fra Siena e Roma in una irrequieta ricerca di sistemazioni pratiche che gli permettessero di supplire alla giovanile dilapidazione del patrimonio ereditato, al suo genere di vita spendereccio e ai bisogni della numerosa famiglia cui solo in parte provvedeva la moglie Laurenzia Perfetti, da lui ritratta come avara e bacchettona nella Sorellina di Don Pilone. Perduto il posto di lettore di «toscana favella» a Siena, a causa del Don Pilone, passò a Roma come precettore in casa Ruspoli con un intervallo di confino a Viterbo, nel 1717-1718 (e qualche breve soggiorno a Siena) a causa della burrasca suscitata dal Vocabolario cateriniano che provocò anche la sua espulsione dalla Crusca e dall’Arcadia. Morí nel 1722. Per le notizie biografiche si vedano: La vita di G.G. detto fra gli arcadi Amaranto Sciaditico di F. Corsetti, Firenze 1746; M. Vanni, G.G. nei suoi scritti polemici e satirici, Firenze 1888; T. Favilli, G.G. senese nella vita e nelle opere, Rocca S. Casciano 1907; U. Frittelli, in «Bullettino senese di storia patria», 1922, pp. 235-278; e per notizie generali e ulteriori riferimenti bibliografici, il Settecento di G. Natali (ultima ed., Milano 1960, vol. II) e la Commedia di I. Sanesi (ultima ed., Milano 1954, vol. II).

3 F. Corsetti, Vita cit., p. 43.

4 Nella Sorellina di Don Pilone Geronimo (prestanome del Gigli) appena arriva a Siena cerca anzitutto un tavolino per mettersi a scrivere!

5 La sua pubblicazione fu interrotta nel 1717 alla lettera R. Riedito interamente nell’edizione delle Opere, II, L’Aja (ma Lucca) 1797 (da cui cito), venne ripubblicato dal Fanfani, Firenze 1866. Sulla sua origine, sul suo interesse e sui suoi limiti in campo linguistico, si veda il lucido studio di B. Migliorini, in Lingua e cultura, Roma 1948, pp. 167-189.

6 Opere cit., II, p. 28.

7 Ivi, p. 36.

8 G. Gigli, Il Gazzettino, a c. di L. Bianchi, Milano, 1864, pp. 47-48. Il Gazzettino fu significativamente raccolto in quella interessante miscellanea libertina e antiecclesiastica che è la Scelta di prose e poesie italiane, Londra, 1765.

9 Motivi antiipocriti son recuperabili facilmente nel Maggi o nel Filicaia; e nel prudentissimo e nioderatissimo Fagiuoli non mancano scherzi satirici sulla saggezza del campanil di Pisa come esempio di «collotorto» perenne o «pitaffi al sepolcro di un bacchettone» (cfr. M. Bencini, Il vero G.B. Fagiuoli e il teatro in Toscana ai suoi tempi, Firenze, 1884, p. 151).

10 Cfr. I.R. Galluzzi, Istoria del granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, Firenze, 1781, per notizie particolari e curiose sui provvedimenti moralistici dell’inquisitore e del vescovo a Siena: cosí nel 1691 fu proibito che i giovinetti frequentassero case dove fossero ragazze (IV, p. 396).

11 Riportate nella vita del Gigli scritta dal Corsetti (ed. cit., pp. 11-13).

12 E poi prosegue dopo aver paragonato gli ipocriti a cupe cantine, a sozzi avelli:

Cosí far si potesse nella nuca

a quei malvagi ipocriti, ch’io dissi,

uno spacco a mio modo, ed una buca,

sicché il cupo lor cuore oggi v’aprissi,

e come a Dante il mantovano duca

io fossi vostra guida in quegli abissi;

o quante bolge, o quanti spirti rei

ignoti a Dante io discoprir vorrei.

13 Involontaria comicità derivante dalla goffa miniatura di una vibrazione patetica («Mio cor che sarà? / Mi par non so che / d’incogniti affetti, / che amore non è, / ma è piú che pietà. / Mio cor che sarà?») o derivante da cadute prosaiche in momenti di supreme decisioni: come nella Fede nei tradimenti («tutta seria») questa battuta di un personaggio in situazione tragica che, alla domanda ansiosa di un altro circa la sua decisione, risponde per due volte: «Ci penso adesso».

14 E qui il tono melodrammatico viene spesso volto esplicitamente al comico, come in queste ariette di un servitore:

Se potessero i bastoni

gastigar senza le mani

averian piú pelle i cani,

e piú lividi i padroni.

(Poesie drammatiche cit., p. 35).

15 Opere nuove cit., p. 123 e p. 113.

16 La dissonanza prosastica nel tessuto musicale eletto dell’arietta è particolarmente viva nella Dirindina anche se meno accortamente mediata che nel Metastasio o nel Goldoni degli intermezzi e dei melodrammi giocosi.

Vo cantar come a me piace

voglio amar chi piace a me.

Inghiottite in buona pace

questa pillola un po’ amara...

dice Dirindina al vecchio e galante maestro di canto Don Carissimo preoccupato delle attenzioni della sua scolara per Liscione, il cantante evirato a cui, alla fine del piacevolissimo intermezzo, si rassegna a cedere avendo scambiato la prova fra i due di una scena di melodramma per un autentico duetto d’amore e per la rivelazione di una relazione amorosa già avviata. E proprio nel finale, quando Liscione impaurito protesta di non potersi assumere doveri matrimoniali, l’umore comico del Gigli, col suo estro grottesco e la sua crudezza di linguaggio, anche nell’attenuazione dello scherzo rivela bene la propria essenziale natura e le proprie capacità di espressione efficace e realistica.

17 L’avversione del Gigli per l’amor platonico coincide con la sua avversione per un teatro da seminario, troppo castigato ed insipido. Sancio dice al padrone: «Bisogna veramente confessare che l’amore di V.S. è veramente platonico, e che ci si potrebbe cavare una commedia da seminari» (p. 292).

18 Fioretto: «A Roma ci sono delle castagne?». Amaranto: «Purtroppo quivi ogni cibo è di quella sorte, perché ogni boccone per saporito che sia, va ingollato con molte punture». Fioretto: «Dunque si mangiano le castagne co’ ricci? Cappita! bisogna che abbiano le budella foderate». Amaranto: «Dove è corte bisogna aver foderato anche il cuore» (p. 180).

19 Piú tardi il Goldoni indicherà nelle traduzioni e nei rifacimenti di commedie francesi un tentativo insufficiente per uscire dalla situazione di decadenza del teatro comico al principio del Settecento (v. Opere, Milano, ed. Mondadori, I, pp. 765-766), ma, fra le numerose prove che egli poteva aver presenti, il Don Pilone ha un’importanza ben superiore e l’opera del Gigli entra davvero con singolare rilievo in quella preparazione di nuova tecnica comica e di suggerimenti artistici rinforzati da una vera efficacia di risultato, da cui non si può del tutto staccare la formazione dell’arte goldoniana.

20 G. Mazzoni, Tartufo e Don Pilone (Propugnatore, 1888), in Abati, soldati, attori, autori del Settecento, Bologna 1924. Sul Don Pilone, e in generale sull’opera comica del Gigli, si vedano le pagine equilibrate del Sanesi (op. cit., II, pp. 20-37), quelle molto limitative dell’Apollonio (Storia del teatro italiano, III, Firenze 1946, pp. 337-341), e l’introduzione alla breve scelta del Gigli nel volume C. Goldoni, Opere, con appendice del teatro comico nel Settecento, di F. Zampieri (Milano-Napoli 1954, pp. 983-987).

21 Come l’ordine che Buonafede dà al fabbro vicino alla sua casa di foderare di feltro i martelli e l’incudine per non interrompere i placidi sonni di Don Pilone o la battuta di Dorina che esagera la gelosia di Don Pilone nei riguardi di Elmira sino alla sospettosa ricerca del sesso della mosca che si fermi sul volto di quella.

22 Nei tre intermezzi appaiono sulla scena quattro amorini che fuggono e deridono quattro vecchie donne, che invano li chiamano e che invano si imbellettano per poter continuare la loro vita galante. Vista l’inutilità dei loro tentativi, esse si vestono da pinzochere e sferzano gli amorini insolenti. Questi poi mostrano di aver ridotto in miseria quattro innamorati che finiranno per vestirsi da bacchettoni. Bacchettoni e pinzochere tornano successivamente insieme sulla scena e nei loro balli, eccitati dagli amorini, si palesano ben sensibili alla gola e alla lussuria finché la giustizia celeste compare a fulminarli. Chiara allegoria di un motivo polemico-comico centrale nella reazione del Gigli all’assurdo travestimento degli istinti sensuali in forme ipocrite di falsa devozione e di falso ascetismo, ma certo qui svolta in forme troppo vistose e non prive di trivialità, e solo in piccola parte capace di tradursi artisticamente con maggiore misura ed incisività, come nei versetti che descrivono la bocca delle vecchie «in gringola» (per dirla col Goldoni):

e se la bocca ride,

pare una grotta oscura in apparenza

ove un sol dente o due fatti romiti

predican l’astinenza

agli antichi appetiti.

23 «Essendo quella di stretta economia, egli di eccedente generosità, ella di trattamento ruvido colla famiglia di suo servizio, esso riconoscente piú del dovere verso i servitori e i mercenari, largo e manieroso; essa finalmente non troppo giovane; né troppo bella ed affettatamente spirituale, egli fresco e non disaggradevole, e quanto alla pietà ed ai costumi, né troppo bacchettone né troppo libero». L’ultima autodefinizione richiama simili posizioni di equilibrio tipiche della saggezza razionalnaturale dell’epoca arcadica (anche il Nelli tiene a proclamarsi né libertino né bacchettone), ma nel caso del Gigli questo equilibrio è piú labile, come sono molto velleitarie le sue dichiarazioni di prudenza.